Come interagire e influenzare positivamente il mondo dell’atleta grazie all’allenamento mentale e alla comunicazione efficace.
Il numero di atleti che decide di affidarsi ad un mental coach, cioè ad un professionista dell’allenamento mentale, è in continua crescita. Genericamente, l’obiettivo è superare problematiche che limitano le performance in gara o di ottimizzare il rendimento sviluppando la giusta indipendenza dalle influenze esterne.
Infatti, non puoi essere un atleta di alto livello se permetti a ciò che non puoi controllare direttamente – come l’atteggiamento del tuo avversario, il comportamento del pubblico, il feedback del tuo allenatore o quello dei tuoi genitori se sei molto giovane – di influenzare il tuo stato d’animo al punto da condizionare in peggio la prestazione.
Gran parte del mio lavoro di coach viene svolto con atleti in una fascia di età tra i 14 e i 21 anni. Sono momenti importanti nella crescita di un individuo: in moltissime discipline, infatti, è proprio questa la fase in cui si decide se la carriera sportiva sarà di livello professionistico oppure amatoriale. Mi piace molto lavorare con ragazzi e ragazze giovani perché, non appena capiscono l’importanza di una mente allenata e gestita in modo ottimale, apprendono le strategie mentali per il successo con grande passione e costanza. Generalmente, non c’è ancora la pressione dovuta al grande pubblico, non occorre gestire le richieste di sponsor e media e, in definitiva, ci sono ottime condizioni per lavorare, contribuendo così a formare una personalità adatta a competere ad alti livelli.
Avere a che fare con atleti così giovani porta anche sfide aggiuntive che vanno affrontate e vinte. Mi riferisco nello specifico all’effetto che l’ambiente ha su atleti non ancora esperti, dove con ambiente intendo il ruolo dei genitori, di fratelli e sorelle, di amici particolari, di allenatori e preparatori atletici. Queste figure, al netto di pochi casi specifici, rappresentano tutto l’ambiente in cui il giovane atleta deve esprimersi: le persone con cui ha più dialogo, i riferimenti dal punto di vista educativo ed emotivo e anche coloro che esprimono un giudizio positivo o meno sulle gare a cui partecipa.
Mi è capitato spesso di dover rivolgere l’attività di coaching, soprattutto a livello di comunicazione efficace, più sui genitori che sull’atleta stesso. Immagina l’effetto di un papà o di una mamma che, durante una gara, sottolineano continuamente al figlio gli errori che sta commettendo. Certamente agiscono così in buona fede, con l’intento di aiutarlo ad evitare altri comportamenti improduttivi, ma non è detto che questo sia l’effetto voluto e in ogni caso – facendolo – spostano il focus su ciò che non sta funzionando. E quando sei in gara, questo è sempre deleterio.
Quando avevo 14 anni giocavo a calcio a buoni livelli e partecipavo ad un campionato regionale che mi faceva sentire grande: ogni domenica mattina mi ritrovavo con la squadra in divisa, salivo sul pullman affittato dalla società e viaggiavo per la mia regione fino al campo di gioco. Avevamo due allenatori e persino un preparatore atletico. Sul campo, a me sembrava di essere in un vero e proprio stadio. C’erano tutte le condizioni per essere felice ed entusiasta di quell’avventura, eppure ogni volta che calpestavo l’erba prima della gara, tutto ciò che facevo era rivolgermi alle tribune e cercare lo sguardo (e l’approvazione) di mio padre. Lo stesso accadeva durante il gioco: ad ogni errore, un passaggio sbagliato, uno stop impreciso, guardavo mio papà sperando che – con gli occhi – non mi rimproverasse. Non andava, ovviamente, sempre come previsto… e spesso ricevevo feedback silenziosi che avevano come effetto, in definitiva, l’impedirmi di giocare al meglio.
Tempo dopo, mi sono reso conto che quella comunicazione muta, ma particolarmente efficace, tra me e mio padre era un limite e non una risorsa. Crescendo, ovviamente, le cose sono cambiate e negli anni mi sono ritrovato a chiedergli di mia volontà di seguirmi, perché la sua presenza mi faceva piacere e mi inorgogliva, ma non era così quando ero molto giovane e privo di personalità forte. In sostanza, mi interessava di più fare sì che mio padre fosse fiero di me piuttosto che godermi il gioco e l’esperienza.
Avevo anche un allenatore con la pessima abitudine di urlare addosso ad ogni suo ragazzo di tutto e di più. Che pressione! Quando arrivava la palla il mio primo pensiero era: “Fai attenzione a non sbagliare o quello ti mangia!” e, per un famoso e ormai conosciuto effetto del “non” sul dialogo interno, indovina qual era il risultato… Per non parlare del fatto che quel tipo di ambiente mi toglieva del tutto il piacere di giocare, tanto che – alla fine – ho smesso, per poi riprendere anni dopo ma, naturalmente, a livelli molto meno importanti.
Ti ho raccontato questo episodio della mia vita perché sono certo di non essere stato l’unico atleta a trarre svantaggio, invece che supporto, dall’ambiente.
Voglio pertanto rivolgermi ai genitori e agli allenatori o coach dei giovani atleti fornendo loro le medesime informazioni che quotidianamente trasmetto nel mio lavoro di allenatore mentale con gli atleti più giovani.
Avete una grande responsabilità nei confronti dei ragazzi: quasi sempre la loro autostima, il loro grado di soddisfazione in ciò che fanno e i risultati che ottengono dipendono molto da voi. Anche una sola parola detta nel modo sbagliato può compromettere una buona gara, e spesso non c’è neppure bisogno di parole per comunicare: basta lo sguardo, il modo in cui usate il corpo, l’espressione che avete sul viso, a volte anche solo il tipo di respiro, per generare stati d’animo depotenzianti nell’atleta. Ovviamente, potete usare gli stessi mezzi per aiutarlo a creare dentro di sé rappresentazioni di eccellenza che lo aiutino a performare alla grande.
Ecco, in sintesi, alcuni consigli:
- La comunicazione verbale (ovvero ciò che dici) deve essere sempre rivolta in positivo. Elimina la parola “non” quando vuoi dare un suggerimento che abbia effetti immediati. Molto meglio dire: “Rimani concentrato!” piuttosto che “Non ti distrarre!”
- La comunicazione paraverbale (ovvero come dici le cose a livello di tono di voce, volume, ritmo) deve essere congruente con lo stato d’animo che vuoi trasmettere. Se urli all’atleta “Stai calmo!” non sei congruente e il messaggio che passerà sarà: “Agitati!”. Dillo con dolcezza, usando un tono rassicurante e ricordandoti di respirare come una persona che è calma. Lo stato d’animo si trasmette automaticamente da persona a persona per ragioni di rispecchiamento inconscio.
- La comunicazione non verbale (ovvero l’uso del corpo quando comunichi) richiede un’enorme attenzione. Non c’è nulla di peggio per un giovane sportivo nel notare il volto contratto e la smorfia di disapprovazione di un allenatore o di un genitore dopo un colpo giocato male, una mossa sbagliata, un pallone calciato fuori. Di nuovo, la domanda da porsi è: che stato d’animo voglio trasmettere? Se è necessario che l’atleta sappia che suo padre è arrabbiato o deluso perché possa rendere al massimo, ben venga. Ma se invece è di intoppo, evitalo come la peste.
- Impara la tecnica del feedback per trasmettere consigli agli atleti. Prima sottolinea ciò che è andato bene e complimentati per questo. Poi fornisci informazioni oggettive (e non emotive) su che cosa non sta funzionando bene. Infine suggerisci una soluzione. Molti saltano quest’ultima parte, alla quale invece occorre assegnare un peso determinante. Ancora una volta, raccomando congruenza nello stile comunicativo.
- Trova modi efficaci per togliere pressione all’atleta. Raramente un atleta inesperto che si sente pressato agisce al meglio. Questo accade anche da adulti, figuriamoci nei ragazzi, quando le risorse per gestire lo stress sono meno sviluppate.
- Al termine delle gare complimentati in ogni caso. La prima cosa che un giovane sportivo vuole sapere è se ha soddisfatto o meno le aspettative dei propri genitori e dell’allenatore. E se la risposta fosse negativa, ci sono ottimi modi per fornirla senza farlo stare male (vedi la tecnica del feedback).
- Rimanda le critiche costruttive e l’analisi degli errori a quando l’impatto emotivo della sfida si sarà esaurito. Non tutti i momenti contano allo stesso modo: ricrea un clima razionale e non emotivo se vuoi che il tuo ruolo sia apprezzato e non disprezzato. L’idea migliore? Parlare della gara solo il giorno successivo tenendo a mente che devi educare e non “sgridare”.
- Trasmetti i valori giusti tramite il tuo comportamento (le parole non bastano). Se vuoi che i tuoi figli o gli alteti che alleni imparino il rispetto per gli avversari, il controllo di sé, la correttezza sportiva, l’atteggiamento vincente… devi essere tu per primo a coltivare questi atteggiamenti. E’, nuovamente, un discorso di congruenza.
- Rispetta sempre l’atleta. E’ una tua responsabilità sapere se quella vittoria o quel tipo di prestazione che tanto ti sta a cuore è tale perché il tuo ragazzo la vuole e gli è utile o perché la vuoi tu ed è utile a te. Sono distinzioni importanti che impatteranno in modo significativo sul tuo atteggiamento.
Conosci i livelli logici teorizzati da Robert Dilts? Brevemente, Dilts sosteneva che ogni individuo risponde ad una determinata struttura interna così articolata: ambiente, comportamento, abilità, convinzioni e valori, identità, spiritualità. Ogni livello dipende dagli altri e solo quando c’è allineamento tra tutti i livelli l’individuo può esprimersi al meglio. I livelli logici, così come li trovi qui elencati, sono descritti “a salire”: sono tutti importanti, ma qual è il primo dell’elenco? Proprio l’ambiente.
Se cambia l’ambiente in cui un atleta si esprime, cambieranno di conseguenza i suoi comportamenti. Questo modificherà le cose che sarà in grado di fare (le sue abilità) e vedendo che riuscirà a compiere nuove imprese, creerà e manterrà in sé convinzioni di successo. Con il tempo, diventerà una persona di successo… mi fermo qui perché credo che di averti fatto toccare con mano l’importanza della creazione e gestione del giusto ambiente attorno al giovane atleta.
Sono specializzato in coaching e lo rendo facile: aiuto le persone a raggiungere e migliorare i risultati sportivi, lavorativi e personali. Curo e gestisco da oltre 15 anni diversi siti web dedicati al coaching e sono autore per Sperling & Kupfer.
Ho all’attivo più di 350 collaborazioni con sportivi, professionisti, aziende.
Sono specializzato in tecniche di allenamento mentale e appassionato di comunicazione efficace.
4 Responses
Un bel sunto di un argomento che in Italia dovrebbe essere affrontato, sviscerato e insegnato molto di più…
Siamo qui anche per questo! 🙂 Grazie…
Ottimi consigli e riflessioni Francesco. Ti volevo chidere come si possono coniugare questi aspetti fa mental coach (quindi spesso rapporto one to one) con il ruolo di allenatore (rapporto 1 a 12) che deve avere una visione di squadra?
Grazie.
La tua osservazione è corretta e di sicuro se sei allenatore devi valutare altri fattori. I consigli che trovi in questo articolo rimangono validi, almeno secondo la mia esperienza anche in situazioni di team building. Penso che il coaching all’interno di una squadra debba avvicinarsi a ciò che sta accadendo con la preparazione atletica: diventare comunque personale. L’allenatore deve comunicare congruentemente e lavorare su obiettivi comuni quando lavora con tutto il team, e poi adattarsi al singolo atleta quando comunica con lui personalmente.
Fammi sapere se ti è utile come risposta.
A presto.